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Agorà

Veduta aerea dell'Agorà

L’agorà era uno spazio imponente su grandi terrazze scenografiche, circondato su tre lati da portici (stoai) intorno a cui si concentrarono edifici amministrativi (come il bouleuterion), di culto e monumenti onorari

di culto e monumenti onorari, costruiti con enormi impegni finanziari ad opera di ‘nuovi’ evergeti (curatori che, secondo le proprie funzioni pubbliche o sacerdotali, finanziavano le opere a loro spese).

Percorrendo una strada in salita che proveniva dai quartieri residenziali della cosiddetta «Acropoli Sud» (dove si trova la cosiddetta Casa del Navarca – vedi post precedente), si arriva al mercato (macellum), che si affaccia su una piazza lastricata, di forma triangolare; la strada proseguiva attraverso una via coperta (via tecta) all’interno dell’edificio con criptoportico. (Nella foto, una struttura simile a Tivoli, nel Santuario di Ercole vincitore).

Nella ricostruzione 3D è evidente la fisionomia dell’agorà, circondata su tre lati da un edificio a due piani, che si articolava in un criptoportico interno e in un portico a pilastri quadrangolari prospiciente la piazza. L’ala si articolava in alzato, addossandosi con un possente muro di fondo al banco roccioso tagliato in verticale e spianato nella parte superiore per costituire la rampa che dal criptoportico conduceva in direzione del teatro. All’interno, lo spazio di oltre m 11 di profondità era scandito in due navate da grandi colonne doriche ottagonali intonacate. Verso la piazza, pavimentata con lastre di calcare (metá I secolo a.C.) e munita di canalette e tombini per lo scolo delle acque, si aprivano esedre, basamenti e podi per statue onorarie, sacelli e altri piccoli monumenti.

L’iscrizione monumentale degli evergeti Onasus e Sopolis ci rende noto che i due personaggi avevano finanziato la pavimentazione del foro. Il notabile di Segesta Onasus è ben noto dalle Verrine di Cicerone (2 Verr., 5, 45, 120). Egli pagò il riscatto del cadavere di un altro segestano eminente, Heraclius il navarca fatto giustiziare da Verre, e poi testimoniò al processo contro lo stesso propretore nell’estate dell’anno 70 a.C. Cicerone lo definisce homo nobilis, homo nobilissimus, vir primarius. Lui stesso (o altri membri omonimi della famiglia) era proprietario di forni per la produzione di laterizi nella zona di Parthenicum.

Un’altra importante iscrizione a Segesta si trova collocata in posizione centrale a ridosso dello stilobate del portico d’ingresso al bouleuterion e ricorda i nomi di Asklapos, capo dei lavori di costruzione, e dell’architetto Bibakos.

C’erano grandi ricchezze nel territorio segestano. “Diocles, Panhormitanus, Phimes cognomine, homo inlustris ac nobilis” era un ricco personaggio (vittima di Verre, come racconta Cicerone) con una grande azienda agricola nel territorio di Segesta; un terreno di una superficie enorme, intorno a 500 ettari (2042 iugeri), da lui affittato (conductum) verosimilmente perché di proprietà sacra (del tempio, cui era tenuto a pagare annualmente ingenti tasse). Si tratta in questo caso verosimilmente di una azienda caratterizzata dalla cerealicoltura, che necessitava di normali competenze ‘contadine’ degli agricoltori di condizione libera presenti in zona e della forza lavoro naturale degli schiavi comuni.